Il rapporto tra fotografia e scultura ha radici lontane che si possono rintracciare agli albori di questa moderna pratica artistica.
Sin dalla sua nascita infatti, la scultura (come anche l’architettura) è stata tra i primi soggetti prediletti dai fotografi, sia per la sua valenza formale che costituisce una sfida per il fotografo, sia per il portato di soggetto inorganico che la fotografia ha il potere di animare. Celebri le immagini che, alla metà dell’Ottocento, Charles Nègre dedica alle sculture gotiche che adornano le grandi cattedrali francesi, o gli scatti di Roger Fenton e Stephen Thompson di poco successivi che hanno per protagoniste le sculture greche e romane che animano i saloni del British Museum.
Verso il volgere del secolo, una volta riconosciuto il suo statuto di arte autonoma anziché di semplice copia meccanica della realtà fenomenica, ovvero attestata la sua autodeterminazione creativa ed estetica, più o meno nel torno d’anni in cui alcuni artisti come Auguste Rodin, Medardo Rosso e poi Constantin Brancusi andavano instaurando un rapporto d’interazione funzionale tra le loro sculture e la fotografia utilizzando le potenzialità di quest’ultima per fornire un’interpretazione e veicolare un’immagine ben precisa delle loro opere, Heinrich Wölfflin pubblicava un saggio breve quanto straordinariamente illuminante: Wie mann Skulpturen aufnehmen soll (letteralmente “Come fotografare la scultura”, 1896-97).
Partendo dall’assunto che qualunque scultura avesse un punto di vista privilegiato e ineludibile deciso dal suo creatore, lo storico dell’arte svizzero evidenziava la contraddizione insita nella fotografia cosiddetta “documentaria” che si occupava di riprodurre la scultura, mettendo in luce la sua impossibilità di essere un’imparziale riproduzione dell’originale e sottolineando così la necessità di riconoscerle sempre una connotazione di atto critico.
Una delle opere prese in analisi da Wölfflin per corroborare la propria tesi era l’Apollo del Belvederedei Musei Vaticani, scultura a suo dire sempre inquadrata da un’angolazione errata. L’opera, asseriva lo storico, era stata debitamente riprodotta una sola volta, da Marcantonio Raimondi, in un’incisione che la coglieva sfalsata, enfatizzando il profilo del volto, chiudendo le gambe e imprimendo così al corpo della divinità una torsione utile a conferire al contempo possanza al torso e dinamicità alla figura.
All’epoca in cui Wölfflin pubblicava il suo saggio, il celebre Apollo era da tempo tornato a Roma dopo le “razzie” napoleoniche. Il suo rimpatrio era stato possibile grazie alle doti diplomatiche di un artista cui, solo alcuni anni prima, era toccato il difficile compito di colmarne l’assenza con la creazione di un’opera a esso ispirata ma di nuova invenzione, cioè assolutamente attuale. L’artista era Antonio Canova e la scultura consolatoria il Perseo trionfante, che proprio nello slanciato portamento che si sviluppa di profilo denota l’accurato studio e la piena comprensione del modello antico ma, al contempo, nella sua forte interpretazione in chiave moderna, anche l’affermazione di un atto critico compiuto da un artista nei confronti dell’opera di un altro artista che guarda ad essa come fonte di ispirazione e oggetto da comprendere e interpretare.
La questione della riproduzione o dell’omaggio tra artista e artista, tra opera e opera, acquista contorni di enorme complessità, tanto più se la si esamina ampliando il raggio di analisi da un punto di vista cronologico e culturale e mettendo in dialogo arti diverse come la scultura e la fotografia. Anche perché troppi sono i fattori propri che andrebbero presi in considerazione, sia per quanto riguarda la scultura, sia per ciò che concerne il lessico tecnico e stilistico della fotografia: il punto di vista; l’inquadratura o il “taglio”; l’uso della luce naturale o artificiale; la scelta possibile da alcuni decenni di scegliere tra bianco e nero e colore; la formazione e la provenienza culturale del fotografo e il fine che questi si prefigge; la distanza temporale e/o geografica esistente tra il fotografo e l’autore dell’opera riprodotta, solo per citarne alcuni. Infine, l’ontologica discrepanza tra la natura bidimensionale della fotografia e quella tridimensionale della scultura.
Nell’alveo della fascinazione che la fotografia nutre da sempre per la scultura, e della sfida che quest’ultima rappresenta per i fotografi, Antonio Canova – di cui quest’anno ricorre il secondo centenario della morte – è da qualche tempo tra gli artisti maggiormente indagati. Celebri restano gli scatti a lui dedicati da Mimmo Jodice o Aurelio Amendola. Oltre a loro, molti altri si sono misurati con il maestro del neoclassicismo e ciascuno, pur nel tentativo di rispettare l’autore cui si pone al cospetto, ha guardato a Canova in modo diverso, rivelando punti di vista inattesi o stimolando in chi osserva un particolare stato d’animo o un’inclinazione, dando comunque sempre un’interpretazione dell’opera canoviana carica di un portato personale ed estetico che non può in alcun modo essere scisso dal percorso umano e creativo dell’autore che ha realizzato lo scatto.
Chi si concentra sui tagli, chi sul contrasto tra chiari e scuri, chi ancora sulla resa della matericità delle superfici. Il fotografo diviene dunque sempre e comunque un mediatore, e la sua opera un amplificatore di emozioni, le stesse che hanno guidato il suo sguardo e le sue scelte.
Fabio Zonta, un percorso di visione
Con Canova ha deciso di misurarsi da qualche anno anche Fabio Zonta. Originario di Bassano del Grappa, Zonta inizia a fotografare le sculture di Canova agli inizi della sua carriera, nel 1975, quando giovanissimo lavorava come assistente dell’allora fotografo impegnato in una campagna nel Museo civico della sua città. Il suo percorso professionale lo porta poi a Milano, nell’agenzia di Alfredo Pratelli, dove, lavorando al fianco di Alfa Castaldi e Christopher Broadbendt, si occupa per molti anni di still-life oltre che di architettura e design.
Un’intensa, felice deviazione che segna l’inizio di un percorso artistico del tutto personale è rappresentata dalla ricerca compiuta, a partire dal 2006-2007, in uno spazio creativo sospeso tra mondo naturale e artificiale. Fiori, conchiglie, ossa e vetri sono osservati e restituiti quasi al microscopio, con un piglio lenticolare che ricorda la pittura fiamminga e la curiosità delle Wunderkammern, le cosiddette “camere delle meraviglie” figlie di quella temperie tardo rinascimentale e manieristica che ne alimenta le raccolte.
Da questa ricerca sboccia poi anche la serie delle “Nature morte”, immagini dal sapore fortemente pittorico – quasi un trompe l’oeil al contrario che dalla fotografia, cioè dalla realtà, sembra voler ricondurre alla finzione della pittura – che riecheggiano le Vanitas seicentesche, così vibranti di quel senso di stupore per la bellezza del creato che non si scinde mai dalla consapevolezza della sua fragilissima precarietà.
Zonta torna a lavorare su Canova solo molti decenni più tardi, tra il 2015 e il 2016. L’occasione è una campagna di riprese alla Gypsotheca di Possagno, tempio dell’opera canoviana che conserva prevalentemente opere in gesso, un materiale molto diverso dal marmo fino a pochi anni prima considerato con sufficienza, quale testimonianza di uno stadio ancora imperfetto e transitorio nel processo creativo del maestro.
La materia gessosa, quindi scabrosa e opaca, delle superfici che assorbono la luce anziché rifletterla come il traslucente marmo impone al fotografo un diverso approccio. Il risultato è una serie di scatti delicatissimi in cui la resa delle atmosfere è tutta affidata alla luce: una luce morbida, soffusa, che accarezza e bagna le superfici delle sculture creando tenui passaggi chiaroscurali. Il fotografo in contemplazione sceglie di rispettare quasi sempre il punto di vista ritenuto privilegiato, così come l’integrità delle figure, non le isola annullando l’ambiente circostante, ma le fa emergere dallo sfondo giocando con la profondità di campo e con la fonte luminosa, una sola, predominante quanto basta per creare differenti piani percettivi tra loro sempre armonizzati.
La serie dei gessi Papafava, fotografati nel 2021, rappresenta un nuovo cantiere di lavoro su Canova, e una nuova sfida. Cinque sculture, tutte di gesso, tra creazioni originali del Canova e calchi dall’antico a lui espressamente richiesti dal conte Papafava per essere collocate nella sontuosa cornice del settecentesco palazzo patavino con pareti decorate: Ebe e il pugilatore Creugante, a rappresentare il genere grazioso e quello eroico, poi il Gladiatore borghese, l’Apollo del Belvedere e il suo contrappunto moderno, il Perseo trionfante. Il fotografo utilizza sempre un’unica fonte di luce, tuttavia, il risultato è ora più enfatico, appassionato: come il Paride ritratto nella sala della Ragione di Asolo, le sculture Papafava emergono perentoriamente dal fondo, quasi lacerando il velo di una marcata penombra. I chiaroscuri si sono fatti più netti, drammatici; la scelta dei tagli e del punto di vista più audace rispetto alla prima serie di fotografie.
Tra le due serie, occorre ricordarlo, si situa il lavoro che Zonta dedica allo scultore tardo-barocco Orazio Marinali, un lavoro in cui l’accentuazione dei chiaroscuri e le inquadrature ravvicinate e scorciate sono quasi reazione istintiva dell’occhio del fotografo che coglie e trasmette il tormento e la passionalità di un’iconografia carica di commozione e di pathos.
Come nani sulle spalle dei giganti, oggi come ieri, chiediamo alla fotografia di farci afferrare il segreto della creazione di tanta bellezza, una fotografia che da strumento passivo deve sempre divenire agente attivo, specchio, lente di osservazione privilegiata. Se tesa nell’anelito di dare vita ad una nuova interpretazione delle sculture del maestro di Possagno, essa può aiutarci suggere il misterioso nettare che scorre sotto quelle superfici di pietra e di gesso, respirarne l’essenza, carpirne il mistero, inebriandoci.
Barbara Guidi