E’ una festa ora a Venezia, il corteo di immagini dedicate a Canova che, nel Salone da Ballo del Museo Correr e intorno al Paride, nelle sue morbide forme, ha inscenato Fabio Zonta, scultore nella fotografia. Esperto nell’evocare ciò che è lontano, Zonta ha rubato l’anima ad alcune invenzioni di Canova con una intuizione visiva: una sola fonte di luce, nella stessa posizione. Così “Amore e Psiche”, così “Orfeo e Euridice”, così “Ettore e Ajace”, così “Venere e Marte” rivivono davanti a noi, trasfigurando il gesso e il marmo in pura idea, come la fotografia consente. E anche la pietra, nei cesti di frutta che ci invitano al sapore di fichi, limoni, melagrane. L’idea dei frutti determina una intatta forma che rigenera la materia. Ciò che la natura ha creato si fa concetto, archetipo.
Questo sono anche i corpi di Canova, pura idea.
Il punto di vista di Canova è il punto di vista di Dio, in una intatta perfezione. E’ questo che ha intuito l’occhio di Zonta. Lo ha bene inteso Barbara Guidi: “Il fotografo in contemplazione sceglie di rispettare quasi sempre il punto di vista ritenuto privilegiato, così come l’integrità delle figure, non le isola annullando l’ambiente circostante, ma le fa emergere dallo sfondo giocando con la profondità di campo e con la fonte luminosa, una sola, predominante quanto basta per creare differenti piani percettivi tra loro sempre armonizzati”. Come non accade mai, le fotografie non rimandano agli originali riprodotti, sono originali esse stesse, e non dipendono.
Noi stabiliamo un rapporto con loro, senza nostalgia delle sculture. Hanno una “presenza” autonoma, da sole. L’idea di Canova è salva, la materia trasfigura. Poi Zonta scompare, la sua forza è nascondersi, non far sentire la propria presenza. Lascia il campo a Canova. La sensazione è che l’autore delle fotografie sia Canova stesso, che Zonta abbia interpretato la sua volontà. Perché nessun artista ha stabilito, come Canova, il rapporto con le sue creazioni come il rapporto di Dio con la natura. C’è una idea del mondo, e da quella deriva la realtà delle cose. Questo è il metodo di Canova, e questo intercetta Zonta.
La perfezione delle sculture e la loro idea nelle fotografie sembrano escludere l’autore, rimandando alla presenza di Dio nell’uomo.
Non sappiamo se Dio esista, ma vediamo la dimostrazione più grande della sua presenza che è l’arte, che è dentro di noi ed è davanti a noi. Questa Epifania attraversa la storia degli uomini, ed è sicuramente avvenuta tra il 1483 e il 1520 con Raffaello, e fra il 1757 e il 1822 con Antonio Canova.
Raffello e Canova sono due artisti collegati, venendo uno da Urbino e uno da Treviso, la loro vicenda umana si svolge nel rapporto con Roma, e a Roma trovano il centro del mondo. Roma è il cuore della cristianità, dei monumenti moderni e barocchi straordinari, la città del mondo antico che vive, che palpita. Lì Canova diventa Canova, e lì Raffaello diventa Raffaello.
Nel 1508 Raffaello inizia a dipingere per Giulio II due opere sublimi che sono il segno della sua diversità rispetto alla pittura precedente, anche rispetto agli artisti che avevano già lavorato nelle Stanze Vaticane, come Luca Signorelli, Bartolomeo della Gatta, il Bramantino. Se questi erano pittori che raccontavano storie, Raffaello dipinge pensieri; rappresenta con la pittura l’idea della teologia con La disputa del Sacramento, ovvero l’indicazione morale del primato dell’Occidente, La Scuola di Atene. Teologia e filosofia.
Trecento anni dopo, nel 1808, a Roma, Canova scolpisce la Paolina Bonaparte, un’opera sublime: il collegamento fra due opere così diverse è nell’unità di pensiero che esse rappresentano. Quando parliamo di Raffaello parliamo di “Ri-nascimento”, parola bellissima ma che è legata al “ri-nascere”, a qualcosa che è prima. Il Rinascimento è la gloria dell’arte che riprende i grandi modelli della tradizione classica. In una strada parallela, prima di Raffaello e Canova, abbiamo Andrea Mantegna e Andrea Palladio: lo spirito di entrambi si ispira al mondo antico, è legato a Roma, uno con la pittura e l’altro con l’architettura.
Il Rinascimento vuol dire ritrovare quell’uomo che il Medioevo aveva in qualche modo subordinato alla presenza di Dio. L’uomo diventa padrone di se stesso, domina il mondo. E come si chiama il movimento cui afferisce, a cui dà il suo lustro Canova? Neoclassico. Come nel Rinascimento, ci si rivolge all’antico per elaborare forme nuove. Lo diceva André Chénier: fare versi nuovi su concetti antichi. È questo che fa Canova; guardiamo la Venere Italica e troviamo il mondo classico insieme al mondo veneto, che lui mai non dimentica.
La figura di Paolina Bonaparte ha una grazia che eccita racconti proibiti: l’opera viene mostrata dalla servitù, talvolta anche a pagamento, nella sua nudità. Ci si interroga se Canova l’abbia spogliata, l’abbia vista nuda, abbia osservato dal vivo la perfezione dei suoi seni scolpiti. Qualche anno dopo, Paolina si rivolge al marito in una pagina meravigliosa, colma di pudore e anche di sentimento del tempo: “Camillo, vorrei pregarvi di farmi un piacere… So che talvolta consentite a qualcuno di vedere la mia statua di marmo. Sarei lieta che questo non accadesse più, perché la nudità della scultura sfiora l’indecenza. È stata creata per il vostro piacere, ora non è più così, ed è giusto che rimanga nascosta agli sguardi altrui.”
È meraviglioso: la modella vuole che venga ritirata. Il suo tempo ormai non è più il medesimo, lei è un po’ sfiorita, e l’idea di presentarsi nuda davanti agli amici del marito le sembra una forma di voyeurismo di cui abbiamo visto tante manifestazioni in tempi moderni, attribuita a un autore come Canova, che è tutto meno che osceno, ma anzi puro e capace di avere con le donne un rapporto dolcissimo. Qui Canova è attratto non da Paolina ma da ciò che lei esprime, nel tentativo di far diventare la pietra carne, che è il senso profondo della sua impresa estetica. La scultura di Canova procede attraverso diversi momenti: la creta, poi il gesso e alla fine il marmo, che è lavorato dagli allievi. Lui interviene e dà la sua mano, come una carezza, con una cera dorata, con una patina rosa.
Per questo le opere di Canova possono anche darsi, come Le Grazie, in più versioni, le quali indicano che non c’è, come nel caso di Michelangelo, l’opera unica: c’è il pensiero che si può riprodurre secondo uno schema che un grande critico d’arte, Giulio Carlo Argan, nel rivalutare Canova, indica come un paradigma del design. Il design in fondo è questo, è la moltiplicazione di un’idea in un numero infinito di modelli. Canova può essere riprodotto perché indica una prima idea, che è l’idea originale, e che poi viene tradotta in questi termini: “Il Canova faceva in creta il suo modello; poi gettatolo in gesso, affidava il blocco ai suoi giovani studenti perché lo sbozzassero e allora cominciava l’opera del gran maestro.” Parlando degli allievi dice: “Essi portavano le opere del maestro a tal grado di finitezza che si sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre artista credeva dover fare. Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permessa a tutti l’entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta: teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva.”
Il Maestro dialoga con la scultura e le dà vita, alito, anima. Zonta lo ha interpretato.
Vittorio Sgarbi